La manipolazione che sfrutta l’intelligenza artificiale è un altro strumento di accentramento del potere, ma paradossalmente ha anche dei lati positivi.

Ti ricordi la famosa immagine dei migranti in Libia in attesa di imbarcarsi per l’Europa che in realtà era una foto di un concerto dei Pink Floyd a Venezia? Ecco, modificare il contesto di una foto o di una notizia è una delle tecniche più semplici al servizio della disinformazione (e della persuasione), e il contenuto così creato si trova esattamente agli antipodi dei video deepfake confezionati con programmi di intelligenza artificiale.

Una foto fuori contesto, ma anche un semplice ritocco con Photoshop o un audio tagliato e rimontato sono tutti esempi di ciò che viene chiamato cheap fake, ovvero una contraffazione di bassa qualità e che ha richiesto poche risorse, sia di tempo che di denaro e tecnologie.

I cheap fake vengono spesso citati in contrapposizione ai deep fake, per sottolineare l’alta qualità e capacità persuasiva di questi ultimi, ma ci fanno anche capire che la manipolazione è un problema vecchio come il mondo, solo che ora si avvale di nuove e potenti tecnologie, come abbiamo visto in questo post sui deepfake.

Nel nostro articolo di oggi, approfittiamo del report su deepfake e cheap fake dell’associazione no profit Data & Society per riflettere sul rapporto tra disinformazione, tecnologie e potere. Vedremo che, oltre agli scenari distopici che tanto preoccupano l’opinione pubblica, la manipolazione audio-video e la disinformazione hanno anche delle conseguenze positive, come la democratizzazione della comunicazione e un possibile ritorno a un giornalismo di qualità.

Deepfake, manipolazione e potere

Deepfake, fake news, disinformazione… tutti questi fenomeni hanno acquisito visibilità durante gli ultimi anni in occasione di campagne elettorali ed eventi politici internazionali. Ad esempio, si continua a discutere di quanto abbiano influito le notizie diffuse dagli account di social network automatizzati sull’opinione pubblica.

La situazione è questa: la verità è un concetto relativo, nel senso che chi ha il potere ha anche più chance di decidere ciò che è vero e ciò che non lo è attraverso la manipolazione della comunicazione, sfruttando la reputazione di personaggi famosi, tramite la retorica e, infine, con prove “manipolate” attraverso le nuove tecnologie.

Da questo punto di vista, l’applicazione del machine learning e dei mille strumenti web oggi disponibili crea un’ulteriore barriera d’entrata nel mondo della comunicazione, avvantaggiando chi ha più mezzi e potere rispetto a chi ne ha meno. Secondo Data & Society, questo non è un problema solo di schieramenti politici, ma anche, ad esempio, di visibilizzazione delle donne, di minoranze etniche o categorie come LGTBQ+.

In questa ottica, i deep fake sono l’ennesimo strumento nelle mani dei potenti (in senso lato) per mantenere lo status quo e consolidare ulteriormente certe narrazioni e opinioni. Ma è davvero così? O meglio, funzionano SOLO così?

Cheap fake, deepfake e la manipolazione democratica

Diceva Umberto Eco che le reti sociali, tra le altre cose, hanno dato diritto di parola agli imbecilli. Se da un lato questa affermazione è innegabile (anche se elitista), dall’altro bisogna aggiungere che i social network e le applicazioni digitali in generale hanno dato visibilità e voce a categorie di persone che prima non ne avevano.

Prendiamo la manipolazione audio-video e pensiamo alle deep fake app, come DeepFaceLab: i deep fake e la contraffazione di video non sono più solo appannaggio dei professionisti, chiunque con un po’ di pazienza può fare un video o una foto fake di un personaggio famoso. Non solo, ma proprio quest’ultima caratteristica dei deep fake (il machine learning ha bisogno di molto materiale da elaborare, per cui i video riescono meglio se hanno come oggetto una persona famosa) li rende ancora più “democratici”. Potenzialmente, ora che esistono addirittura app di deep fake per dispositivi mobili, nessuno è più al sicuro dalla manipolazione.

C’è di più. Nonostante il grande pubblico debba ancora espandere le proprie competenze digitali, pian piano sta diventando  più cosciente di ciò che c’è nella rete e di quali sono gli attori della comunicazione, online e offline. Se da un lato questa maggiore consapevolezza ha portato a un clima del sospetto e perfino a nuove teorie complottiste, dall’altro sta lentamente immunizzando l’opinione pubblica contro la persuasione.

Le notizie false fanno male perché riducono la visibilità di quelle basate sui fatti, ma di per sé non sono sufficienti a cambiare il credo politico di una persona. Al massimo, possono servire a polarizzare l’agenda dei media e rafforzare certe credenze, ma non hanno un potere persuasivo così grande come quello che gli viene attribuito. Infine, più notizie false vengono scoperte, più il pubblico diffida e cerca fonti e interlocutori affidabili. In questo senso, le nuove tecnologie di disinformazione rovesciano il problema e creano un pubblico più attento e meno malleabile.

Verso un giornalismo di qualità?

Una delle conseguenze descritte (o auspicate) degli esperti di media è che la diffusione di deepfake e disinformazione stia lentamente facendo rinascere una domanda di informazione di qualità, prodotta da professionisti e regolata da un’etica che negli ultimi anni ha rischiato di scomparire.

In mezzo a tante notizie e tante bufale, quando non si sa più se credere neanche ai discorsi in video del presidente degli Stati Uniti, le persone vogliono un punto di riferimento, proprio come anticamente ogni lettore aveva il proprio quotidiano di fiducia. In Italia, ad esempio, questa nuova domanda ha portato alla nascita di nuovi portali che promettono informazione seria, verificata e imparziale, come Il Post, Valigia Blu e il recentissimo Domani.

Attenzione però, perché questa tendenza ha anche il suo lato negativo. Il rovescio della medaglia è che questa necessità di protezione dalla disinformazione porta le istituzioni ad adottare politiche che possono passare in un batter d’occhio dal controllo di qualità dell’informazione alla censura. Ad esempio, nell’ottica del progetto Europa contro la disinformazione, l’agenzia è stata denunciata già varie volte da portali che affermano di non aver pubblicato notizie false.

Deep fake, i cheap fake di domani

In conclusione, le tecnologie al servizio della disinformazione sono anche il segnale di cambiamenti positivi nella società. Come abbiamo visto, i deepfake di oggi saranno presto i cheap fake del futuro e sempre più persone sapranno riprodurli e, di conseguenza, riconoscerli.

Il pubblico è sempre più sensibile al problema della disinformazione e si sta generando una domanda di contenuti seri, di qualità; questa nuova tendenza potrebbe portare a un ritorno a un universo mediatico meno caotico e in cui sia più facile navigare e distinguere i professionisti seri dai ciarlatani o, peggio ancora, da chi cerca di influenzare l’opinione pubblica tramite la disinformazione.

La manipolazione della realtà e della verità nei discorsi politici è un fenomeno antico e che non cesserà certo di esistere nel 2020. Cambiano le tecnologie e la qualità della contraffazione, ma il problema è sempre lo stesso. Ciò che cambia davvero, invece, è il livello di consapevolezza della società, che tra deepfake, blandi tentativi di censura e disinformazione online comincia a capire che l’alfabetizzazione digitale non è più un optional.

Buona navigazione e buona immunizzazione contro la disinformazione!

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